La fortuna duratura e costante di alcune espressioni artistiche, letterarie, figurative o musicali, è determinata indubbiamente dal carattere universale e profondamente umano che artisti ispirati riescono a infondere nei sentimenti rappresentati, che trascendono le epoche storiche, le mode, le appartenenze culturali e religiose, e nello stesso tempo sono continuamente rinnovati e resi vivi e attuali.
Nel 1810, quando diede alle stampe ed eseguì, “nel 16 di settembre nella cattedrale di Napoli per la festività della Vergine addolorata” una sua trascrizione dello Stabat Mater dell’”immortale Pergolese”, Giovanni Paisiello, nato a Taranto nel 1740, aveva alle spalle una lunga carriera internazionale e poteva considerarsi l’ultimo e acclamato testimone di una civiltà musicale napoletana che aveva conquistato l’Europa e il mondo intero.
Di questa gloriosa tradizione, Giambattista Pergolesi (Jesi 1710, Napoli 1736) era l’emblema, e la sua figura artistica era entrata nel mito immediatamente dopo la sua precoce morte. In particolare, il suo Stabat Mater, che secondo una tradizione leggendaria era stato composto negli ultimi giorni della sua breve vita, conquistò immediatamente una fama internazionale che, senza soluzione di continuità, persiste ancora ai nostri giorni.
Ricchissimo di immagini, banco di prova per gli effetti descrittivi che suggerisce, lo Stabat Mater, sequenza in latino del XIII secolo attribuita al francescano Jacopone da Todi, è stato intonato da centinaia di musicisti fino ai nostri giorni. Ma certamente quello di Pergolesi è il più celebre e il più eseguito.
Nessun’opera, quanto lo Stabat di Pergolesi, subì tante riduzioni e tanti adattamenti, non solo da parte degli innumerevoli interpreti che, secondo le circostanze e le disponibilità materiali, lo eseguivano nelle chiese, nelle sale da concerto o in case private, ma anche per mano di altri compositori, che molto spesso ne alteravano la purezza.
È quanto mai opportuna quindi la precisazione quasi enfatica che Paisiello fa apporre sul frontespizio della sua edizione stampata a Parigi nel 1810: “…senza dipartirsi dell’originalità…”
Precisazione che può farci sorridere oggi, visto che aggiungeva arbitrariamente gli strumenti a fiato, modificava alcuni assetti della tessitura degli archi, modificava parzialmente alcuni frammenti delle melodie, inseriva indicazioni dinamiche, di fraseggio e di andamento assenti in Pergolesi, introduceva nuove figure di accompagnamento. Dunque, si trattava di interventi che alteravano sensibilmente il testo pergolesiano, ma tuttavia senza tradirlo. Dopo 74 anni (1736-1810) Paisiello rivendicava l’”originalità dello Stabat Mater del Pergolese” e di certo aveva tutta l’autorevolezza per farlo, per la sua collocazione storica, per il prestigio internazionale, ma soprattutto per la sua sensibilità profondamente consapevole nell’interpretare lo spirito della tradizione di cui faceva parte. La maestria delicata nell’uso dei fiati gli assicurava la completa aderenza ai sentimenti espressi dalla musica di Pergolesi. Valga come esempio la splendida orchestrazione del Quando corpus morietur con quei colori caleidoscopici sempre cangianti come i vetri di un rosone, che sembrano accompagnarci verso la “gloria del paradiso”
Per la nostra generazione, educata al rispetto per il testo originale, doveroso a causa di tante inopportune e fuorvianti incrostazioni accumulatesi nei secoli, l’ascolto di questa trascrizione ci offre un’ottima opportunità di godere del capolavoro pergolesiano in una diversa prospettiva.
Per gli esecutori è una sfida perché obbliga ad un’interpretazione articolata su tre dimensioni diacroniche: noi-Pergolesi, noi-Paisiello, Paisiello-Pergolesi. In ultima analisi, ci invita anche a considerare un testo musicale non solo come testo statico e cristallizzato una volta per tutte dal compositore, da osservare come in una teca, ma anche come un organismo che vive nel tempo e pertanto sempre mutevole, dinamico e attuale.
The long-lasting and steady fortune of some artistic expressions, whether literary, musical, or visual, is no doubt determined by the universal and deeply human character (spirit) that inspired artists managed to instill into represented feelings (?) transcending historical eras, fashions, cultures or religions, and keep being renewed, reinvigorated, actualized.
Giovanni Paisiello was born in Taranto in 1740. When in 1810 he published and performed, “in September 16th in the Naples Cathedral during the feast for the sorrowful Virgin”, one transcription of “the immortal Pergolese”’s Stabat Mater, he had already a long international career and could easily consider himself as the last and acclaimed witness of a Neapolitan musical civilization that had fascinated Europe and the whole world.
Giambattista Pergolesi (Jesi 1710, Napoli 1736) had been the emblem of this glorious tradition, and his artistic figure had become mythical soon after his early death. In particular, his Stabat Mater, that, according to the legend, had been composed in the last days of his short life, had immediately won international fame that is still with us.
The Stabat Mater is a thirteenth-century Latin sequence attributed to Franciscan Jacopone da Todi. It is rich with images, a test bench for suggestive descriptive effects, it has been set to music by hundreds of composers up to our days. Yet, Pergolesi’s Stabat is the most famous and the most performed one.
No work as Pergolesi’s Stabat has been reduced and adapted so many times. Not just by countless interpreters who, according to circumstances and material availabilities performed in churches, concert halls or in private houses, but also by other composers, who would alter its purity.
It is therefore rather appropriate Paisiello’s almost emphatic clarification put on the frontispiece of his edition published in Paris in 1810: “…senza dipartirsi dell’originalità… [without departing from the original]”. Such clarification may make us smile today, given that he arbitrarily added wind instruments, modified some arrangements of the arches weaving, changed some fragments of the melodies, inserted dynamic directions of phrasing and progression which were not present in Pergolesi, and added new accompanying figures.
These interventions changed Pergolesi’s text noticeably, yet they did not betray it. 74 years later (1736-1810) Paisiello claimed l’”originalità dello Stabat Mater del Pergolese” [Pergolese’s Stabat Mater originality”], and, to be sure, he was fully entitled to say so. Indeed, he was entitled because of his historical context, because of his international prestige, and, above all, because of his deeply conscious sensitivity in interpreting the tradition he belonged to. His delicate mastery in the use of the winds guaranteed the complete adhesion to the feelings expressed by Pergolesi’s music. As an example, it must be mentioned the splendid orchestration of the Quando corpus morietur with kaleidoscopic, everchanging colors like the glasses of a rose window that seem to take us to the “gloria del Paradiso” [Paradise’s glory].
For our generation, raised in the respect for the original text — a due respect given the many inappropriate and misleading growths piled up in centuries – the listening of this transcription offers us a great opportunity for enjoying the Pergolesi’s masterpiece in a different perspective.
It is finally a challenge for the performers because it forces an interpretation articulated on three diachronic dimensions: we-Pergolesi, we-Paisiello, Paisiello-Pergolesi. Finally, it invites us to consider a musical text not only a static and established once for all by the composer, to be looked at as in a display case, but also as a living, dynamic, mutable organism.